Onorevoli animali politici e compagnia, dove ogni deficiente impera (da cui l’acrostico dodi&c, indicativo della famosa scuola dei reggicoda di regime, mistici della religion of darkness e adoratori di principi pseudofondamentali di una Costituzione, impostami come bibbia dell’oscurità, da accettare senza fiatare)!
Democrazia e uguaglianza sono, nella nostra Costituzione, principi pseudofondamentali!
Riflettete un momento, se siete capaci, ma ne dubito. Lasciate perciò che insulti il vostro pensiero debole, e la vostra cecità volontaria, perché ogni mio insulto è comunque e sempre una provocazione al miracolo della vostra veggenza che è ancora da venire!
I sopracitati principi fondamentali della Costituzione sono una vera bufala. E lo dimostrerò nei relativi articoli, o bestie infami!
“Art. 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
La Repubblica è democratica? Sicuro, ma al tempo della Costituente non tutti avevano in testa la stessa cosa al riguardo. Che significa democrazia?
La democrazia rappresentativa è una democrazia, ma la democrazia popolare è un concreto sistema politico, opposto all’espressione che lo definisce! Riuscite a capire nel vostro pensiero debole, anzi bacato, che il principio democratico fu accolto per il semplice motivo che l’assemblea costituente fu eletta a suffragio universale? Infatti come avrebbe potuto verificarsi che un’assemblea, eletta in tal modo, avesse potuto istituire un’autocrazia? Solo una dodi&c cioè una compagnia di deficienti avrebbe potuto tanto!
Contro le adulterazioni della vostra odierna orwelliana neolingua, il concetto di democrazia ha (avrebbe dovuto avere o no?) il significato universale e univoco di metodo pacifico per deporre liberamente i governanti sgraditi. E solo questo può voler dire che nella “mia” democrazia, che è fondata sulla “tua” democrazia, e viceversa, in quanto sostanziate da universalità e non da debolezza di pensiero, è il popolo che sceglie le autorità supreme. Il popolo che significa? Significa TUTTO il popolo, in modo eguale. Infatti non può esservi democrazia senza uguaglianza individuale. Dunque la democrazia è (avrebbe dovuto essere o no?) sovranità di uomini uguali. E perché? Perché essa è simile ai battiti del cuore di un organismo: i battiti devono andare a tempo. Se vanno fuori tempo si produce una sincope, e l’organismo muore. Ma questa esigenza ritmica riguarda esclusivamente il diritto da uomo a uomo! Non altro. Infatti la “egalité”, per andare d’accordo con le sue consorelle rivoluzionarie “liberté” e “fraternité” deve scorrere nell’alveo del proprio torrente che è il diritto, non nell’alveo della “liberté”, che è la cultura, né in quello della “fraternité”, che è l’economia. Perché se, per es., io voglio lavorare più di te, sono fatti miei, e nessuno deve impedirmelo in nome della “egalité”. Oppure, altro es., se i risultati dei miei studi mi portano a dire che la Costituzione italiana è una cagata pazzesca, nessuno deve avere il diritto di impedirmelo, se non attraverso la confutazione degli stessi. Ma nel pensiero debole delle università deficienti di universalità, chi confuta chi?
Storicamente l’uguaglianza viene prima della democrazia. Detto in soldoni: io sento che se tu ed io vogliamo attenerci a regole, le regole a cui dobbiamo attenerci devono essere approvate da entrambi. “La civilizzazione portò ad acquisire prima la nozione e il sentimento d’uguaglianza, poi d’eguale potere nell’elezione del governo, cioè della democrazia” (Pietro di Muccio “Orazione per la Repubblica”, Ed. Liberilibri, Macerata 1990).
“[…] La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”? Ma che senso ha proclamarlo? Non ve lo siete mai chiesto nella vostra testa bacata?
Il primo dei principi fondamentali della Costituzione non avrebbe potuto benissimo essere “La Repubblica è una democrazia”, con molto risparmio di parole? O meglio, avrebbe potuto anche omettersi del tutto, perché del tutto inutile, dato che la definizione del governo di un organismo sociale si ricava dal complesso stesso della Costituzione. Ma evidentemente ciò non bastava. Perché non bastava? Chiedetevelo, o caproni, prima di passare all’articolo 2.
“Art. 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”
La vedete nell’art. 2 la malefica cazzata? Senz’altro non la vedete perché non siete abituati alla ragione, e siete abituati al compromesso eteroimposto. Ma per quanto si possa virtuosamente chiamare “compromesso istituzionale”, questo vizio originario dei principi fondamentali è né più né meno di uno squallido compromesso imposto. E mai la parola “compromesso” ebbe significato tanto squallido. Stiamo infatti parlando di principi fondamentali della Costituzione o stiamo parlando di prestazioni di escort e trans?
L’articolo 2 fa mi fa cagare! Cioè mi infastidisce. Non solo perché sento questa norma come declamatoria ed enfatica, ma perché io pretendo un punto fermo dopo la parola uomo, così: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Punto e basta. Cos’altro c’è da dire se non l’elenco di tali diritti? Perché che l’uomo non viva solo, che sia “animale politico”, cioè civile, è fatto ormai ovvio, così come è pure ovvio che egli intrattenga relazioni con il mondo esterno, con individui e cose… Qui la Costituzione sembra scritta più per esseri non terrestri ma appartenenti a un altro pianeta. Magari a un pianeta di bestie in cui l'”animale politico” sia, appunto, più animale che politico.
La vedete o no nel vostro cervellino affumicato la pericolosissima trappola di “principi fondamentali” come questo? In quell'”adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” si annidano precise insidie. Io lo percepisco bene. Sono matto? Sono matto come Leonardo Facco, Giorgio Fidenato, Carbone, Hoppe, Rothbard, Mises, ecc., potrei continuare a lungo… Siamo tutti matti? Insomma può davvero la solidarietà essere “politica, economica e sociale”? Cos’è questa? La prescrizione di una costituzione? Il bene non può essere imposto dalla legge!
Il compito della legge, e dunque della costituzione in quanto legge suprema, non è imporre o auspicare il bene, bensì impedire il male.
Riflettete, idioti.
Non è facile né semplice impedire il male che gli idioti causano agli umani. Però questo è l’arduo e complesso ufficio che dovrebbe avere una sana Costituzione. Questo, non altro. La Costituzione non deve promuovere direttamente il bene. La Costituzione deve invece preservare condizioni nelle quali il bene LIBERAMENTE possa essere compiuto dagli umani; comunque, condizioni in cui il male sia prevenuto quanto possibile, o represso e punito quanto merita.
Del resto perfino voi, portatori di pensiero debole, culattacchioni e/o debosciati, sapete, come io so, che non ha nessun valore morale operare il bene sotto la sferza di una costrizione irresistibile. Il bene vero, per essere tale, esige dall’individuo volontà, azioni, facoltà di scelta ed assenza di restrizioni che le coartino o impediscano. Il bene implica la valutazione di possibilità cattive, e presuppone il rifiuto del male.
In un organismo sociale libero, l’imposizione legale di un’azione virtuosa potrà forse anche esservi, ma solo come eccezione, che confermi la regola opposta, perché un organismo sociale sano si può reggere solo su divieti, non su comandi.
Nessuno mi può comandare, o bestie! Le bestie possono essere comandate o addomesticate. Non io. Io non sono un ruminante.
Nel suo libro “Orazione per la Repubblica” (op. cit.), Pietro di Muccio mostra il carattere determinante e decisivo che dovrebbero avere delle vere costituzioni. Ma lo fa in modo troppo gentile. Io sento che è finito il tempo di essere gentile con delle teste bacate come voi, dato che non siete colpevoli in quanto deficienti ma in quanto volete permanere nella vostra deficienza per non voler evitare l’errore del passato, quello di proclamare fondamentale ciò che, alla meglio, è solo retoricamente accessorio.
Ma procediamo.
“Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”
Questo articolo è stato considerato, nella politica e nella giurisprudenza, uno dei pilastri del nostro ordinamento poiché sanzionerebbe il principio di eguaglianza.
Ma lo fa solo nel primo comma, e per il resto è posto in forma barocca, vale a dire senza forma certa e ben determinata! È uno sformato alla supercazzola! Viene cioè scritto che tutti hanno pari dignità sociale e che sono tutti uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Ma serviva questo elenco, questa scolastica spiegazione assolutamente inopportuna in una costituzione? Non avrebbe forse potuto formularsi l’articolo 3 in modo lapidario? Da almeno 2500 anni l’Occidente ha acquisito (e ripetutamente perso, purtroppo!) il valore supremo dell’isonomia.
Oggi però, se parli di isonomia ti ridono in faccia. Cos’è un nuovo tipo di fellatio per magistrati? Eppure l’Italia conosce l’isonomia come immancabile iscrizione nelle aule giudiziarie: “La legge è uguale per tutti”. L’isonomia esprime perfettamente il concetto della prima parte dell’articolo 3. Ma poi che succede? La seconda parte dell’articolo 3 stabilisce invece il suo esatto contrario, dato che questa seconda parte dice “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E ciò è una palese contraddizione della prima: una vera e propria antinomia. Altro che isonomia! Rifletteteci o uomini lupo! Ahahaha aha aha ah! Ma non arrampicatevi sugli specchi!
Generalmente questa seconda parte viene considerata il logico complemento della prima, o la conseguenza implicita del principio di uguaglianza, o la finitura di una disposizione altrimenti imperfetta. Invece è una idiozia, antitetica alla prima per una considerazione, tanto facile quanto inconsueta tra giuristi e politici. Perché inconsueta, se facile? Chiedetevelo bestie!
A tal proposito Pietro di Muccio dice nel suo libro che si rifiuta di credere “che difettasse l’intelligenza in chi avrebbe potuto accorgersene” e che il contrasto sia stato invece “volutamente celato per motivi che devono essere condannati senza appello. Questa disposizione attribuisce infatti alle autorità centrali e locali la potestà di violare l’uguaglianza dei cittadini per procacciarsi il favore, specialmente elettorale, di gruppi particolari. È una potestà spaventosa per la società che la subisce, ma inebriante per l’autorità governante che la esercita. Serve a compiacere e pavoneggiarsi, ma a danno dell’etica e del diritto”.
E prosegue “Chi può negare che, se la legge è davvero uguale per tutti, cercare di sistemare le condizioni materiali degli individui, in modo da porli nella identica posizione di fatto, significa appunto discriminarli? E che la persona umana si sviluppa davvero ed è effettivamente partecipe della comunità soltanto se la legge è uguale per tutti; mentre, quando le autorità si propongono di livellare le condizioni economiche, sono costrette ad infrangere l’uguaglianza legale, perché debbono trattare in modo diverso persone diverse per collocarle alla pari? In ciò sta appunto la stridente violazione dell’isonomia”. Ed ancora: “Questo articolo 3, sotto la veste del migliore proposito, cela il germe distruttivo della società libera, che non può reggersi dove il governo pretenda di assegnare ai cittadini un posto prefissato e determinare le loro condizioni economiche e sociali tendenzialmente secondo uno standard eguale o prestabilito. L’effettiva partecipazione alla vita della nazione nei suoi vari aspetti si riscontra storicamente soltanto dove la costituzione lascia sprigionare le sinergie della libertà. Non la politica egualitaria, bensì gli sforzi per eccellere e la concorrenza economica determinano la partecipazione civica. Pure tralasciando l’aspetto etico, notiamo che l’isonomia stimola l’intraprendenza e l’ingegnosità, mentre l’uguaglianza materiale le ostacola. L’imposizione dell’egualitarismo intralcia la sperimentazione del nuovo, l’imitazione dell’utile, la selezione del meglio: tre processi fondamentali della civilizzazione. Dove questi mancano o stentano, la partecipazione, quantunque sbandierata, è solo una parola” (ibid.).
L’isonomia è allora (dovrebbe essere, o no?) il vero principio fondamentale dello Stato di diritto stesso, in grado di mettere a disposizione di tutti, tutti gli strumenti possibili per influire in modo deciso sugli affari pubblici e forgiare indirettamente anche la propria vita privata.
Considerando poi il lato etico della questione, l’immoralità dell’egualitarismo risulta evidente agli uomini giusti o a coloro il cui senso morale è fondato sulla stima differenziata dei comportamenti individuali, come insegnavano le antiche regole del diritto: “honeste vivere, neminem laedere, suum cuique tribuere” (“vivere onestamente, non recare danno ad altri, attribuire a ciascuno il suo”). Se infatti il metro di giudizio dev’essere uguale, non si possono trattare tutti allo stesso modo: se io guadagno di più perché lavoro di più, mi penalizzi di più? In tal caso il criterio della retta condotta non avrebbe senso. Invece tale criterio è determinante nello sviluppo umano. Dunque l’articolo 3, osannato come un cardine della nostra Repubblica, “può equipararsi invece ad un grimaldello per scardinarla. È prova lampante dell’origine compromissoria della nostra Costituzione, una tara che ne snatura troppe clausole” (ibid.)!!!
“Art. 4. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Con l’articolo 4 si entra nel vero e proprio trappolone dello statuto totalitario, ben incastonabile nelle “costituzioni” degli Stati nazisti e collettivisti.
Leggi attentamente i due commi. Il primo afferma: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”. Il secondo stabilisce: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Scandalizzati fin che vuoi o pecorone dal pensiero debole, ma la verità che odi è proprio il fatto che uno Stato non può riconoscere il diritto al lavoro, perché se tutti possedessero naturalmente un diritto al lavoro, la Repubblica avrebbe l’obbligo legale di garantire tale diritto, assegnando a ciascuno un impiego. Così però si instaurerebbe tra cittadini e Repubblica un rapporto giuridico semplicemente mostruoso. Infatti è aberrante già solo immaginare che uno Stato sia obbligato a dare a tutti un lavoro. Una condizione politica di tal genere è esattamente qualificabile come totalitaria, dato che la vita di ognuno verrebbe determinata dallo Stato, concepito come il dispensatore del sostentamento materiale di tutti!
Il famigerato articolo 4 afferma poi che la Repubblica promuove le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro. Ma questo dispositivo, questo promuovere, può essere tanto buono quanto cattivo, ed è proprio questa ambivalenza ad accentuarne la pericolosità. Infatti, promuovere le condizioni che rendano effettivo il lavoro può significare lo stesso dell’articolo 3, che assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, con tutte le conseguenze dannose e le implicazioni maligne sopra citate. Ma si può anche interpretare il dispositivo accennato – che non è stringente ed apodittico come il secondo comma dell’articolo 3 – nel senso opposto, e cioè che la Repubblica preservi le possibilità dell’evoluzione spontanea e dello sviluppo libero della società! E con ciò si entra qui nel regno dell’imbecillità più stolida, cioè nella dodi&c più profonda, cioè nella vera e propria Costituzione del bestialismo materialistico pratico!
Infatti “in quale Costituzione ideale inseriremmo il dovere incombente ad ogni cittadino di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società? È troppo facile osservare che su questa disposizione potremmo intentare a Socrate un processo per vagabondaggio. Sappiamo fin troppo bene quanto faccia comodo anche oggi in certe dittature l’accusa di parassitismo per sbarazzarsi di individui politicamente sgraditi. Né possiamo dimenticare che qualche codice penale, non propriamente liberale, punisce l’accidia” (ibid.).
La verità è che nessuno è in grado di giudicare quali funzioni o prodotti siano utili all’organismo sociale, finché la gente non li abbia sperimentati ed accettati.
Quindi nessuno, nella mia Costituzione (cioè in una concreta Costituzione poggiante su universalità del pensare, e non su pensiero debole), può arrogarsi il diritto di stabilire – perché ne mancano a chiunque le capacità – se bighellonare in piazza, dialogare con amici, imbrattare tele, martellare marmi, piegare ferri, scrivere musica e parole, coltivare hobby, scialacquare proprie sostanze, inventare oggetti, scoprire novità, siano attività socialmente utili o inutili:
“Una saggia Repubblica non carica questi doveri sulle spalle degli uomini, perché sono doveri che possono esistere solo dove la libertà è così flebile fiammella che il soffio di un burocrate può spegnere a discrezione” (ibid).
“Art. 5. La repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
L’articolo 5 stabilisce un buon programma politico per il governo di un organismo sociale sufficientemente libera. Ma i programmi governativi stanno meglio fuori delle costituzioni, e la storia insegna che comunque nessuno di essi si sia attuato fino in fondo. Figuriamoci i programmi interni alle costituzioni! È come immaginare nell’organismo umano un programma di inspirazione e di espirazione dell’aria in luogo del naturale sistema respiratorio. Forse che si respirerebbe meglio?
“Art. 6. La Repubblica tutela con apposite norme delle minoranze linguistiche”.
Con l’art. 6, si afferma la tutela delle minoranze linguistiche. Possiamo comprenderne più la ragione che la presenza nella costituzione. Perché già nell’art. 2 la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. Ed è ovvio che il diritto alla propria lingua e cultura sia un diritto primordiale, che precede molti altri, dato che è un diritto all’integrità fisico-spirituale, ed il linguaggio è parte essenziale della persona: se si vietasse l’idioma in cui una minoranza desidera esprimersi, si conculcherebbe un modo di manifestare la personalità, quindi la libertà individuale; strappare la lingua a qualcuno è dunque un orribile delitto, sia in senso metaforico che in senso reale. Dunque, anche questa norma è pleonastica, se l’articolo 2 ha un senso, a che serve l’art. 6?
Vengono poi gli articoli 7 e 8, che sembrano molto italiani. Non li trascrivo in quanto li sento come bastardi, spuri, che non c’entrano con la Costituzione. Infatti traggono origine dalla storia e dalla geografia dell’Italia, completamente uniche al riguardo. La chiesa cattolica è istituzione romana, tradizione nazionale, religione universale. Anteriore alla Repubblica, la forza di questo imponente retaggio ha pesato sulla bilancia costituzionale e premuto l’assemblea costituente a sanzionare la specialità della dottrina cristiana dei successori di Pietro. È evidente che l’articolo 8 costituisce una regola generale che tiene conto del principio di uguaglianza stabilito dall’articolo 3, uguaglianza davanti alla legge, isonomia che la Repubblica dovrebbe assicurare; mentre l’articolo 7 sancisce il privilegio! Cioè la norma specifica a favore di un soggetto particolare. E come tale, in contrasto con l’isonomia dell’articolo 3. Tuttavia gli articoli 7 e 8 non si compenetrano, né si escludono, ma si completano nell’affermare la libertà religiosa. Però si tratta, come ognuno può vedere, di una libertà squilibrata. Le confessioni religiose, in una società davvero libera, non possono essere discriminate. E la libertà religiosa dovrebbe essere garantita semplicemente statuendo che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere nel rispetto della costituzione. L’articolo 7 costituisce una delle disposizioni più note ed originali della nostra carta costituzionale. Ma vantarcene e magari ascriverla ad un superiore genio politico e giuridico, mi sembra troppo. Come dimenticare che uomini e gruppi personalmente e programmaticamente atei votarono l’articolo per interesse di partito, mentre tanti costituenti, credenti o agnostici, lo approvarono per ragion di Stato? Disposizioni di questo genere sono dunque figlie delle necessità della storia, non della costituzione.
L’articolo 9 poi accolla alla Repubblica lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, nonché la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione. E in genere ci si appella in questa norma in nome dell’ecologismo, esaltando la lungimiranza dei costituenti. Però, in me, tale articolo non suscita nessun verde entusiasmo, specialmente se lo considero insieme agli altri che lo precedono e seguono, e caricano sulle spalle della Repubblica un giogo tanto pesante che, a volerlo davvero portare tutto a destinazione, ne resterebbe schiacciata dopo un passo. E così, come una docile asina, La Costituzione può essere tirata da ogni parte. Tutti trascinano gli enti pubblici ad esercitare potestà su mille materie, invocando servizi e contributi. Alé! Vomitevole! Mi fermo qui.
Ce n’è da riflettere, no? Ciao animali sociali!
E state in campana, se non volete diventare sempre più animali e sempre meno sociali!