Pensioni che si svalutano fino ad arrivare ad un valore pari ad un terzo dell’ultimo salario percepito. È questa la fosca previsione del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) in una ampia ed approfondita ricerca diffusa oggi.
Con la famosa “riforma Dini” del 1995 si è passati dal sistema retributivo al sistema contributivo. Ciò significa che, a partire da quell’anno, ogni lavoratore matura una pensione rivalutata in base a quanto effettivamente versato nel corso della sua vita lavorativa. Il sistema retributivo si fondava, invece, sul fatto che i lavoratori in attività, con i loro versamenti, finanziavano le pensioni. La riforma si è resa necessaria perché il sistema retributivo si basa essenzialmente su un delicato equilibrio demografico fra soggetti in attività e pensionati. Se aumentano questi ultimi (in conseguenza dell’innalzamento della speranza di vita) e diminuisce la popolazione in età di lavoro, il gettito dei contributi versati non è più in grado di finanziare le pensioni attuali.
Il ricorso al sistema retributivo ha consentito ai pensionati, fino ad ora, di poter percepire assegni pensionistici molto vicini al valore dell’ultimo stipendio (circa l’80%). Le simulazioni dei ricercatori del Cnel mostrano che in futuro, con il sistema contributivo, le pensioni potranno anche ammontare ad un terzo dell’ultimo stipendio (circa il 35-40%), con quale possibilità di sopravvivenza del pensionato è facile intuire.
Su quali dati si fondano le simulazioni dei ricercatori? Lo studio ha preso in considerazione l’evoluzione del cosiddetto “tasso di sostituzione”, cioè il rapporto tra prima rata della pensione e ultimo salario percepito. Nel sistema retributivo, i principali parametri da cui questo indicatore dipende sono il salario del pensionato nell’ultima parte della carriera e l’anzianità contributiva. Nel caso del sistema contributivo i parametri principali sono il salario lungo l’intera carriera, l’anzianità contributiva e l’età del pensionato.
Alla fine del secondo decennio di questo secolo cominceranno ad andare in pensione quei soggetti che godono di un trattamento misto (in parte retributivo e in parte contributivo), perché nel 1992 avevano meno di 15 anni di versamenti. Per costoro il tasso di sostituzione è di circa il 50-53%. Porteranno a casa una pensione che vale circa la metà dell’ultimo stipendio percepito.
La simulazione dimostra come un prolungamento del periodo lavorativo è in grado di attutire, almeno in parte, gli effetti negativi del tasso di sostituzione e consentire, dunque, al lavoratore di percepire un assegno vitalizio più “ricco”. Insomma, andando in pensione più tardi ci si guadagna. Già con un anno di lavoro in più, il tasso di sostituzione può passare dal 62% al 67%. Man mano che sono collocati a riposo quei lavoratori per i quali l’assegno pensionistico è legato sempre di più al sistema contributivo, il prolungamento dell’età lavorativa diventa quasi un imperativo. Nel terzo decennio del secolo, sarà necessario arrivare almeno fino a 67 anni di età per poter sperare di avere un tasso di sostituzione intorno al 55-60%. Altrimenti il rendimento dell’assegno crolla al di sotto di quelle soglie. I ricercatori ipotizzano che, nel terzo decennio, un prolungamento dell’età lavorativa fino a 66,5 anni comporti un innalzamento del tasso di sostituzione dal 48 al 67% (ma bisognerà elevare i limiti di età per andare in pensione, che attualmente sono fermi ai 65 anni).
Ma le pensioni scontano anche un altro problema: quello della loro mancata indicizzazione all’aumento del tasso di produttività. Salari e stipendi, infatti, percepiscono aumenti legati al progresso della produttività del lavoro e concordati fra sindacati e associazioni degli imprenditori ad ogni rinnovo contrattuale. Le pensioni, invece, si rivalutano solamente in base ad un’indicizzazione legata al tasso di inflazione. Per rendere evidente questa discriminazione, la ricerca del Cnel stima che se nel 2014 coloro che vanno in pensione percepiranno circa il 64% del salario di un lavoratore in attività, coloro che andranno in pensione nel 2034 percepiranno un assegno pari al 46% del salario di chi lavora. Una caduta di 18 punti percentuali. Ancora peggio sarà la situazione per coloro che andranno in pensione nel 2050: percepiranno una pensione pari ad un terzo del salario attuale.
E il divario aumenta man mano che trascorrono gli anni e i lavoratori incassano la rivalutazione dovuta alla produttività, mentre i pensionati soltanto quella legata all’inflazione. Si tratta di un’evidente violazione del principio di uguaglianza che nessuna legge, fino ad ora, ha mai preso in considerazione.
Secondo lo studio la situazione peggiore riguarderà i lavoratori autonomi e le donne, ma soprattutto i lavoratori temporanei e precari. Se questi ultimi riusciranno ad essere assunti entro tre anni dall’inizio della loro carriera con un contratto a tempo indeterminato saranno in grado di attutire gli effetti del regime pensionistico contributivo. Se, invece, tale possibilità sarà loro preclusa o molto ritardata, entreranno a far parte del popolo della “nuova povertà” una volta varcata la soglia della pensione.
Nel 2050 chi andrà in pensione percepirà un assegno pari al 36% del salario di chi lavora. Soltanto il prolungamento oltre i 65 anni consentirà un parziale recupero. Sono questi i perversi effetti della riforma pensionistica.
MA I POLITICI CHE PENSIONI HANNO E AVRANNO ?????????? www.dazebao.org
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